PORDENONE 900
IL RECUPERO DELLA STORIA
La scelta della rosa di architetture di seguito illustrate è per lo più giustificata dall'aver individuato come comune denominatore il tema della «riscoperta della storia».
Il legame tra progetto e storia, latente in Italia già nell'immediato dopoguerra con la questione dell'architettura contemporanea nelle «preesistenze ambientali», esplose successivamente sulle pagine di Casabella-Continuità con il Neo-Liberty dei «giovani delle colonne» e con il gruppo di architetti che, con Aldo Rossi, costituirono la cosiddetta Tendenza.
L'interesse per la storia trovò però il suo amplificatore nella mostra «Presenza del Passato», organizzata nell'ambito della Biennale di Venezia del 1980, e diretta da Paolo Portoghesi. Questa sezione proponeva, attraverso le opere dei suoi partecipanti, il superamento del Movimento Moderno, ritenuto non solo incapace di produrre la promessa utopia urbana, ma anzi colpevole di aver portato alla distruzione della città stessa, da troppo tempo paragonata ad una macchina, e soffocata dalla zonizzazione e dalla monotonia; condizioni non più accettabili, aggravate dal contesto economico successivo alla crisi energetica del 1973, che resero ancor più evidenti i limiti della fede positivista che aveva caratterizzato la prima metà del Novecento.
L'operazione di Portoghesi, una lotta per la «fine del proibizionismo», non presentava istanze inedite ma proponeva piuttosto una sintesi di posizioni maturate a partire dagli anni Cinquanta sia in America, dove la critica all'International Style avrebbe incontrato la pop-art, sia in Europa; posizioni diverse ma legate dal medesimo fine: la riscoperta del linguaggio perduto dell'architettura.
L'episodio principale della mostra fu la «Strada Novissima», una grande scenografia urbana di venti facciate affiancate, nella quale interagivano frammenti delle più disparate architetture, e nella quale potevano coesistere le colonne e le citazioni loosiane nella facciata di Hans Hollein con una ironica versione di tempio dorico proposta da Robert Venturi, John Rauch e Denise Scott-Brown.
L'orizzonte a cui pare tendere la Mostra è una visione sincronica della storia, un deposito di immagini, simboli e suggestioni a disposizione della nuova architettura, che può liberamente collocarli, manipolarli e combinarli. L'uso di forme e soluzioni desunte arbitrariamente dalla storia1, che era solo uno degli aspetti del fenomeno, finì per identificare genericamente il cosiddetto postmoderno indicando, con tutti i limiti che un aggettivo classificatorio porta con sé, l'uso di «divertenti ghiribizzi e forme voluttuose» o al più un recupero nostalgico da stigmatizzare.
In realtà, il postmoderno aveva trovato una sua trattazione sistematica già nel 1975, con lo scritto di uno dei curatori di quella biennale, Charles Jencks, che con quel nome voleva solo definire sei differenti orientamenti dell'architettura dopo il movimento moderno2.
La città fantastica sorta tra i colonnati delle Corderie dell'Arsenale di Venezia, che per la prima volta venivano aperte alla città, rappresentò per una generazione di studenti e professionisti una nuova via, una liberazione definitiva dai dogmi della modernità e dalle sue aspirazioni – sociali e urbane – mai realizzate. Era nella città che quel fallimento appariva più acuto: non deve quindi stupire che a partire dagli anni Sessanta il dibattito architettonico si sia concentrato su di essa e sul legame esistente tra tipi edilizi e forma urbana; in particolare, oltre al fervore editoriale con cui l'Italia affrontava la storia dell'architettura e i temi intorno alla città, si affermò nell'ambiente veneziano dello IUAV un nuovo approccio allo studio dei fenomeni, sviluppato nei corsi di Carlo Aymonino, Aldo Rossi, Gianugo Polesello e Luciano Semerani3 ed anticipato dalla ricerca di Saverio Muratori e dalla didattica di Samonà.
L'Istituto Veneziano, che occupava un ruolo internazionale derivante proprio da quelle ricerche e dalla fama crescente dei suoi docenti, fra cui molti friulani, influenzò la generazione di professionisti locali, sia con il trasferimento di un bagaglio culturale ben delineato sia nella costruzione di relazioni professionali che, a Pordenone, trovò un suo riscontro con l'arrivo di Vittorio Gregotti, Carlo Aymonino, Mario Botta, Robert Krier, Boris Podrecca, Giuseppe Gambirasio e Vittorio De Feo, proprio legati a quel mondo accademico.
Le analisi sulla forma urbana e sulle strutture insediative - che si trattasse di Padova, di una generica città veneta, di Trieste, Milano o del Canton Ticino - riconsegnarono al progetto i dispositivi tradizionali degli edifici a corte con giardino interno, delle case su lotto gotico, degli isolati ottocenteschi etc., ridefinendo il ruolo del rapporto strada-edificio e del monumento come catalizzatori nella costruzione sia della città antica che di quella contemporanea.
Visti in questo contesto, gli edifici selezionati cercano di conferire valore urbano attraverso le forme consolidate dell'edilizia storica e di introdurlo nella periferia, dove questo era totalmente assente.
In città, l'apparire di questo rinato sentimento è riscontrabile nella «Copper Haus» progettata nel 1983 da Gianluigi Furlan, con l'appena laureato Luciano Campolin. L'edificio declina il portico a doppia altezza e la volta a botte in rame sottolineando la sua appartenenza al cuore della città; la sua facciata però non cerca di imitare le residenze del centro storico, e anzi sembra avere più a che fare con un edificio istituzionale che con un edificio residenziale e commerciale. L'interesse di Furlan nei confronti dell'architettura di Adolf Loos (1870-1933) e dell'ambiente austriaco di inizio Novecento è chiaro, ma pare inevitabilmente condizionato dalla lettura fattane da Aldo Rossi 4. Allo stesso mondo di riferimenti e di elementi pare legato l'edificio delle aule universitarie, progettato a partire dal 1995 per il Consorzio Universitario Pordenonese, nel quale il legame con alcune case private di Adolf Loos può fondersi con edifici contemporanei di matrice rossiana o con il razionalismo «minore» del mercato ittico di Napoli, costruito nel 1929 da Luigi Cosenza. Sempre dalla collaborazione tra Gianluigi Furlan e Luciano Campolin, con la collaborazione di Bruno De Blasio, nacque il complesso a corte di Via Montereale, sviluppato attorno al giardino della preesistente Villa Lavinia; anche qui il progetto si confronta con l'architettura di inizio Novecento: oltre al progetto per un hotel parigino (1924) e alla casa per Tristan Tzara (1926) di Adolf Loos, è possibile individuare chiari riferimenti alla Lupusheilstatte (1908) di Otto Wagner, ma anche alla «Ca' Brütta» (1919-1922) milanese di Giovanni Muzio (che a Pordenone nel 1948 aveva progettato il Cinema Cristallo) ed alcune opere di Giuseppe De Finetti.
La città, però, non era stata solo oggetto di studi dal punto di vista formale e architettonico: con l'istituzione dell'Associazione Nazionale Centri Storico Artistici (ANCSA) e, successivamente, con il X° Convegno Nazionale di Urbanistica di Trieste5, di fronte ad una divaricazione sempre maggiore tra la città nuova, in espansione, e la città antica, costretta alla sola tutela, ci si iniziò a interrogare circa il ruolo del pubblico nel recupero dei centri storici, con alcuni esempi di intervento nel territorio nazionale6; a Pordenone questo tema fu affrontato da Ezio Cerutti già nel 1975 con la redazione del «Piano Particolareggiato del Centro Storico», che definì un primo avvio alla formulazione del «Piano di Recupero del Centro Storico» del 1983-84; questo strumento, anticipato da una lunga fase di analisi, per la quale l'Amministrazione Comunale collaborò con l'Istituto Tecnico Statale per Geometri, si prefiggeva il recupero della massima quota possibile di residenza e il controllo delle destinazioni d'uso7; le aree soggette a piani di recupero furono in seguito estese dal nuovo Piano Regolatore Generale del 1986, redatto da Arnaldo Zuccato.
All'interno di quei piani furono realizzate nel comparto ex-Caserma dei Carabinieri (nei pressi della chiesa del Cristo) la Sede degli Industriali e, successivamente, la Sede di rappresentanza della Regione. Il progetto dei due edifici vide impegnati Donata Manzon, Antonio Santarossa e Valter Baracetti, con la consulenza dell'architetto serbo Boris Podrecca nel primo edificio e la progettazione del lussemburghese Robert Krier nel secondo. La presenza dei due progettisti di fama internazionale – di nazionalità diverse ma entrambi operanti a Vienna – è giustificata da alcune collaborazioni con i professionisti pordenonesi: Boris Podrecca, che in quel momento era impegnato a Venezia come Visiting Professor, aveva già avuto occasione di confrontarsi con la realtà locale nel progetto per la piazza del Duomo di Sacile (1984-86) e, sempre con Antonio Santarossa, nel progetto della Chiesa del SS. Redentore a Fontanafredda (1987-92); Robert Krier invece, contemporaneamente alla progettazione della Sede per la Regione, è impegnato nel progetto della Baia di Sistiana, in cui collabora con il pordenonese Francesco Giannelli (1953). Proprio Giannelli, laureatosi a Venezia con Carlo Aymonino nel 1978, sembra l'esponente più influenzato dalle teorie sul recupero storicista e ricombinatorio degli elementi architettonici nella costruzione dello spazio urbano, ben visibile nel sapore ottocentesco del suo intervento nel palazzo Astoria del 1988, posto all'incrocio tra via Oberdan e via De Paoli.
Ed è interessante considerare, ai fini del ragionamento che lega approcci diversi al recupero della storia e alla volontà di costruire pezzi di città, gli elementi dell'Astoria di Giannelli – basamento, timpano, finestre e soluzioni d'angolo- con il monumentale Centro Servizi della Banca Popolare di Pordenone (oggi Sede degli Uffici della Regione) di Giorgio Garlato, del 1987, e con il più sobrio Condominio De Luca, progettato da Gianluigi Furlan e Luciano Campolin tra il 1989 e il 1991.
Oltre alle operazioni sul centro storico, i piani di recupero furono estesi anche ai quartieri periferici, come a Torre, in cui lo IACP avviò il progetto di Luigi Girardi (1950) e Alfio Conti (1960) per le residenze e la piazza del 1989, e a Rorai Grande. Un terzo intervento fu individuato nell'area compresa tra le vie Fontane, Caboto e Colonna, dove con il recupero dell'ex-birreria si intendeva collocare la Prefettura, la Questura e il Genio Civile; il progetto del complesso fu redatto nel 1989 dall'architetto Nicola Pagliara (1933) con la collaborazione di Renato Russi, progettista pordenonese in cui l'influsso delle opere di quel gruppo di architetti che va da Aldo Rossi a Franco Purini, e nel quale si intrecciano storia, geometria, simboli e autobiografia, è facilmente riscontrabile anche nell'ampliamento del cimitero di Rorai Grande, progettato con Roberto Bove tra il 1992 e il 19958,
Il desiderio di riscoperta delle radici di Pordenone animò, nel corso degli anni Ottanta, una serie di mostre, da quella su «Pordenone nel '400», a quella sul Pordenone, alla Mostra curata da Umberto Trame (1948) sulla «Cultura della Villa» nel Friuli Occidentale, con catalogo edito dalla Biblioteca dell'Immagine. Le pubblicazioni della casa editrice pordenonese, fondata nel 1985, nonché l'istituzione di alcune mostre, come la Rassegna Biennale di Architettura «Premio Marcello D’Olivo», contribuirono alla conoscenza dell'architettura locale, alla promozione dei professionisti9, nonché alla costruzione di un clima di relazioni e collaborazioni, che in Regione aveva già una sua consolidata tradizione con figure come Ernesto Nathan Rogers ed Enrico Peressutti dei BBPR, Gino Valle, Gianugo Polesello. Francesco Tentori, Luciano Semerani, sino ai più giovani Augusto Romano Burelli, Pierluigi Grandinetti ed Umberto Trame10.
La riappropriazione del passato in chiave identitaria, in un momento in cui iniziava a manifestarsi una fuga dalla città ai centri periferici e nel clima della ricostruzione a seguito del sisma del 1976, si tradusse anche in importanti restauri nel Centro Storico, come quelli di Palazzo Ricchieri, del Convento di San Francesco, o quello operato da Giorgio Bellavitis su Palazzo Montereale-Mantica per collocarvi la Camera di Commercio, e nell'individuazione di altri interventi di recupero per creare un ampio circuito culturale come l'ex Convento dei Domenicani in piazza XX Settembre come nuova sede Bibliotecaria, il Castello di Torre come Museo Archeologico e la Villa Cattaneo, per la quale tra il 1984 e il 1988 fu proposto un ambizioso campus di istruzione superiore (su progetto di Stefano Tessadori e Giampaolo Bortoluzzi, con la collaborazione di Francesco Donato).
E sempre nella direzione del recupero, già dal 1986 maturò l'intenzione di definire l'immagine dell'area Sud del Centro Storico, attraverso un concorso di idee, bandito nel 199011. A quel concorso, vinto poi dall'architetto Alberto Gri con Giuseppe Gambirasio, Giorgio Della Longa e Michele De Mattio e Stefania Battiston, partecipò anche Isidoro Martin, con la consulenza di Carlo Aymonino.
Il capitolo viene chiuso, anche temporalmente, con un altro concorso: quello per il palazzo della provincia; una prima proposta era stata avanzata nel 1989 da Mario Botta e Giulio Andreolli, con la proposta di un edificio compatto a definire il distacco tra la città contemporanea lungo Via Brusafiera e la città antica, con la corte verso gli edifici su Corso Garibaldi; un successivo concorso dell'ottobre del 1995 vide partecipare oltre 22 gruppi di progettisti, come quello guidato dal romano Vittorio De Feo che risultò vincitore, quello di Pasquale Culotta e Giuseppe Leone (con Stefano Tessadori), secondo classificato, quello di Gino Valle e Mario Dell'Acqua (e i pordenonesi Gianluigi Furlan e Luciano Campolin), e quelli guidati da professionisti pordenonesi come Umberto Trame, Italo Giorgio Raffin o l'ingegner Giuseppe Carniello. L'edificio, di cui i lavori iniziarono nel 1999 e terminarono nel 2004 (a due anni dalla scomparsa di Vittorio de Feo) sembra appartenere, anche in città, ad una stagione ormai superata, e mal recepita nel giudizio collettivo.
Costituisce un caso a sé l'approccio di Luigi Molinis, architetto impegnato nel disegno industriale, nella pittura e nell'illustrazione, che, nel progetto per la casa Corai (1987-1991), declina in maniera personale il tema della storia, sovrapponendo un volume modernista reciso ad una casa semplificata ai suoi tratti essenziali: il recinto e il tetto a doppia falda, con un ricercato isolamento rispetto alla città.
NOTE
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