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IL QUARTIERE GALLARATESE, MILANO

CARLO AYMONINO - ALDO ROSSI

L'area nord-ovest della periferia milanese, comprende al suo interno il quartiere Gallaratese, un “quartiere dormitorio” degli anni '60. Il disegno viario del identifica un'isola centrale allungata, in cui si sarebbero dovute sviluppare le funzioni collettive a servizio degli interventi residenziali. Il P.R.G del territorio comunale milanese adottato nel 1953, indicava un'espansione residenziale della città lungo la direttrice nord-ovest secondo 3 insediamenti distinti: il QT8, e due quartieri detti satelliti G1 e G2, indicanti il quartiere Gallaratese ( inizialmente chiamato Chiusabella) 1. Le due parti G1 e G2, di 110 ettari, dovevano essere separate da una zona di 100 ettari, e distanziati tra loro di un chilometro, mentre una zona a verde attrezzato doveva separare G1 dal Qt8: le tre aree, avrebbero dovuto formare una nuova parte di città di 370 ettari.Nel 1955 iniziarono i lavori per la revisione del P.R.G: riguardo al Gallaratese, Piero Bottoni assunse il compito di realizzare un piano particolareggiato, in accordo con gli uffici tecnici comunali. La soluzione proposta intendeva distaccarsi dall'impostazione consueta per i quartieri di edilizia sovvenzionata. Per Bottoni era necessario ricollegare lo sviluppo di questi quartieri popolari, mancanti di servizi adeguati e di centri di vita, ad un'edilizia privata contemporanea a quella sovvenzionata, per costituire le parti “vitali” del quartiere città. La presenza nello schema 1 presentato da Bottoni, di una “strada vitale” centrale lungo tutto il quartiere, rappresentava il cardine di organizzazione delle funzioni e dello spazio. All'iniziativa privata doveva competere la realizzazione, lungo questa strada centrale, di edifici commerciali (corpi bassi) e di case ( relativamente alte) disposte ortogonalmente, al fine di evitare la formazione di una tradizionale “rue corridor”, lasciando agli enti pubblici le aree per i “centri di vita” lungo tutto il percorso: l'alternanza dei sistemi misti doveva consentire aperture sui parchi e sugli accessi ai nuclei di residenza sovvenzionata, retrostanti alla strada. 2

Attraverso la verifica di fenomeni relativi al processo storico di formazione dei quartieri nelle città italiane, Bottoni affermava: “ in un’epoca in cui i traffici non essendo motorizzati non contraddicevano alla possibilità della circolazione pedonale, la strada rappresentò il massimo di vitalizzazione per i quartieri e le zone che stanno attorno”. Questo pensiero si rifletteva direttamente nell’idea base del quartiere Gallaratese, cioè realizzare il cuore di un quartiere secondo un asse e zone residenziali secondo nuclei paralleli a questo. Nel 1956 però il piano di Bottoni veniva accantonato: l’Iacpm voleva una soluzione alternativa, costituendo a tal fine un gruppo di studio di 68 professionisti. In piena contraddizione con il programma di Bottoni, si iniziava a pianificare G1, eliminando così l’idea di sviluppo contemporaneo delle due aree costituenti Gallaratese. Nel 1957 venne sottoscritta una convenzione tra Iacpm e Cep (comitato edilizia popolare, organismo sorto nel 1955 per coordinare l’attività edilizia di Iacp, Ina-casa, Incis, Unrra-Casas) per la costruzione di G1 sulla base di un piano estraneo alle indicazioni della revisione al P.RG.

L’amministrazione a questo punto nominò una commissione tecnica formata da Enrico Ratti e Giò Ponti, come fiduciari dell’Iacpm, e Luigi Dodi, come consulente esterno. La loro soluzione cercava di fondere i due progetti, cercando di conservare i fondamenti del piano originario. Per questo tale soluzione fu subito liquidata, e Iacpm affidò ai propri urbanisti il lavoro di pianificazione, pervenendo ad piano generale approvato dal Ministro dei lavori pubblici nel 1958. La situazione nelle aree del Gallaratese divenne assurda, allorché si deliberarono interventi per le fognature e le strade, senza l’esistenza di un piano particolareggiato approvato dal Consiglio Comunale, si iniziarono a costruire case, violando vincoli del piano regolatore sulle aree a verde agricolo, si avviò persino un Gallaratese 3 (San Leonardo), ricadente in aree destinate a verde pubblico. Per sanare tale situazione, l’amministrazione affidò nel 1960 un ulteriore studio del quartiere a Cesare Chiodi e Luigi Dodi, che realizzarono una soluzione di “compromesso”.

Ma, come rileva Claudia Conforti:

“ il prolungato disaccordo tra Comune e Cep, le connesse oscillazioni tra le relative proposte, le incertezze operative legate ai piani 167, consentiranno, nei fatti, la crescita urbanisticamente confusa e architettonicamente generica di un insediamento che raggiungerà in pochi anni 41.000 abitanti (1973) e che, nonostante la generosità progettuale di alcuni interventi, rimani a vent’anni di distanza un’inerte e indifferenziata sommatoria residenziale, morfologicamente non rilevabile” 3 .

Che il risultato del quartiere sia una sommatoria residenziale indifferenziata, è un dato denunciato dallo stesso Aldo Rossi, che pone l’accento sull’inadeguatezza del disegno generale per il quartiere:

“E’ indubbio che un nuovo insediamento come il quartiere Gallaratese, per fare l’esempio forse quantitativamente più clamoroso, poteva costituire un fatto di notevole importanza. E invece bisogna rilevare come il suo fallimento non dipenda solo dalla incredibile mancanza di servizi, verde, attrezzature ma anche dalla inconsistenza del disegno generale di questa nuova parte di città: disegno in cui è persino difficile ritrovare la paternità o la responsabilità dei progettisti, nella lunghezza dei tempi, nella applicazione di norme e regolamenti complessi e sovrapposti, nella riduzione burocratica di troppa parte della edilizia pubblica milanese. In questo quadro scompare anche la brutta architettura con cui è realizzato, la solita immagine casuale e senza motivazioni dell’edilizia sovvenzionata milanese, e scompaiono i pochi buoni esempi: come le torri di Magistretti che, a mio avviso, sono un esempio positivo sia dal punto di vista tipologico che figurativo e che, in un’altra situazione, potevano assumere notevole importanza. L’architettura dei quartieri, insomma, non è andata oltre l’importante proposta di Bottoni con il QT8 e il Monte Stella; così che questi due fatti rimangono certamente come gli esempi più importanti, e senza seguito, della situazione milanese” 4

Il progetto per il comparto Monte Amiata all'interno del Gallaratese 2, venne messo a punto tra il 1967 e il 1969 dallo studio AYDE 5. Il committente, la società privata romana Monte Amiata S.p.A. decise di costruire in proprio le abitazioni previste dal piano. Per poter edificare, la Monte Amiata, dopo l'approvazione del PEEP, attivò un dialogo con l'amministrazione, stabilendo una convenzione approvata il 9 novembre 1964. La società si impegnava a cedere 25.900 mq per l'urbanizzazione primaria, e 42.250 per «edificazione di pubblico interesse», tra cui ulteriori residenze economiche e popolari: 26.700 mq,destinati ad urbanizzazioni primarie e ad una scuola, vennero ceduti a titolo gratuito, il rimanente ad un prezzo inferiore a quello di mercato. In questo modo, la Monte Amiata ottenne la possibilità di edificare 169.000 mc sui 52 .760 mq di cui rimaneva proprietaria 6. I rapporti fino ad allora intercorsi tra la società proprietaria e Carlo Aymonino, divennero formali e ufficializati nel 1967 tramite regolare lettera di incarico. che consegnò al Comune di Milano la prima ipotesi planivolumetrica il 18 novembre dello stesso anno.

Utilizzando il vantaggio di un’area a proprietà unica e di una prevista unitarietà delle costruzioni (che non sarebbero affatto state vendute, ma solo affittate) fin dalle prime impostazioni si è pensato ad un “insieme” definito volumetricamente da elementi diversificati, ma non identificabile attraverso la sommatoria, puramente quantitativa, di più edifici isolati (come era previsto nel planivolumetrico disposto dal Comune). Inoltre nell’impostazione si è deliberatamente ignorato il “luogo”, inteso come rapporti con l’intorno, in quanto l’area è totalmente priva di suggerimenti sia naturali (un terreno piano, senza caratteristiche rilevanti - né alberi, né corsi d’acqua ecc.), che artificiali, se si escludono i tracciati stradali e gli edifici già costruiti, assai elementari (le strade sono piane e le case limitrofe sono dei parallelepipedi di 8 piani e delle torri di 12, disposte secondo un disegno assolutamente casuale e ripetuto). Il centro del quartiere, confinante a nord con l’area predetta, è a sua volta, per ora, rappresentato solo da una “zona” segnata nella planimetria generale, senza alcun suggerimento architettonico. Il “luogo” è allora costituito da un riferimento “generale” (con il rischio di divenire generico, se la forma del manufatto non lo rappresenta) ad una diversa struttura urbana, che certo non può realizzarsi solo e unicamente su quell’area, ma che sicuramente avrebbe potuto intravvedersi se avesse investito l’intero complesso del quartiere Gallaratese, interpretato come “parte” della città di Milano. Si è pertanto cercato di accentuare il distacco dall’intorno, ricorrendo a un impianto generale il più possibile compatto e costruito, che al limite potesse risultare quasi un unico edificio, meglio un’unica costruzione”7.

Nel novembre del 1967 Carlo Aymonino aveva proposto ad Aldo Rossi la collaborazione al progetto in corso: Rossi seguiva in loco l’iter burocratico e, per la parte progettuale, otteneva l’incarico di pensare ad uno dei corpi di fabbrica del complesso, l’edificio D, lungo 182 metri e largo 12 metri. Aymonino, rispondendo ironicamente a coloro che gli chiedevano il motivo di un edificio totalmente divergente, come quello progettato da Rossi, affermerà di avergli dato l’incarico, non essendo lui in grado di progettare una stecca da 150 metri. In realtà, il rapporto che legava i due sul piano intellettuale, con anni di attività didattica svolta insieme per una decina d’anni, si manifestò in altre collaborazioni, come la progettazione del centro direzionale di Firenze. I due architetti, con i rispettivi libri e studi sulla città introdussero il concetto della “città per parti”. Al Gallaratese si proponeva “[...] l’idea che con un progetto architettonicamente unitario si può controllare non tutta la città, ma un settore di essa”.

Nell’ottobre del 1969 la Commissione edilizia del Comune di Milano espresse parere favorevole. Il complesso, nella sua versione definitiva, risulta composto da 4 edifici, che assumono il nome di A, B, C e D (progettato da Aldo Rossi).Ciascuno degli edifici progettati ha un’inclinazione diversa rispetto ai raggi solari, e gli alloggi cercano la massima diversificazione delle configurazioni (ben 117 nella soluzione realizzata, a cui si aggiungono i tre tipi dell’edificio a ballatoio di Aldo Rossi). Gli edifici di Aymonino possono essere considerati pressoché anti tipologici, concentrati sulla ripetizione degli elementi costruttivi e sulla originalità irripetibile dell’insieme. Tipologico è l’edificio rossiano, che contiene una rielaborazione della memoria dell’abitazione popolare a ballatoio. Nella relazione definitiva di Carlo Aymonino possiamo leggere:

“L’idea iniziale di un’unica “costruzione”, articolata ma compatta, si è dovuta man mano precisare in cinque corpi di fabbrica. di altezze e profondità assai diverse, correlati tra loro dagli elementi di collegamento (rampe, passaggi aerei tra i diversi edifici, ballatoi, scale), da quelli commerciali (negozi) e di svago (teatro all’aperto, piazze di copertura (dei garage destinate al gioco, passeggiata interna). Tale precisazione di più corpi di fabbrica non è dovuta a motivi tecnici (difficoltà di soluzioni costruttive) né funzionali (coincidenza tipologica tra appartamenti e corpi di fabbrica). E dovuta principalmente alla verifica cui sono state sottoposte le prime idee rispetto ai diversi regolamenti (edilizio, per quanto riguarda altezze dei piani, profondità dei vani, illuminazione dei corridoi, ecc; igienico, per quanto riguarda illuminazione e aerazione diretta delle cucine e dei bagni. delle scale, ecc.; dei vigili del fuoco, per gli scantinati, gli ascensori, i garage, ecc: della legge 167, per quanto riguarda le altezze massime dei fabbricati, le percentuali di parcheggi, di verde, di aree per bambini, i distacchi dai confini, ecc..)” [...]

Entro questi vincoli, la continuità dei percorsi pedonali, sia orizzontali sia verticali (dai parcheggi a terra si arriva agli atri di ingresso, da questi si passa ai ballatoi, ai corridoi interni dei duplex - collegati tra loro da edificio a edificio - e si può tornare ai portici dei piani terreni, alla quota più alta del teatro all’aperto o sostare nelle tre piazze differenziate), ha il compito di rompere la tradizionale concezione dell’edificio “privato”, il cui unico rapporto, con le zone “pubbliche” della città è dato dal portone d’ingresso sulla strada, per costituirsi invece, come un iniziale modo di strutturare diversamente residenza e servizi.Come la quantità dei percorsi, anche la varietà degli appartamenti (dalla mono-stanza attrezzata agli appartamenti duplex) nasce dalla “supposizione” di modi d’uso dell’architettura diversi dagli usi reali, dovuti alla proprietà privata (del suolo, degli appartamenti, dei negozi).

Non corrispondono, quindi, alla tradizionale coincidenza tra tipo di appartamento e tipo volumetrico dell’edificio, ma si relazionano, nella loro disposizione, alle regole compositive del tutto.Non si è trattato, dunque, di costruire semplicemente degli appartamenti ma di completarli con i servizi di loro pertinenza e, soprattutto. con spazi aggiuntivi - immaginati come pubblici nel progetto, divenuti condominiali nella realtà - a parziale conferma del carattere urbano dell’insieme. Tale è la grande galleria coperta sono l’edificio B che, scavalcando la strada, avrebbe dovuto collegarsi pedonalmente con l’ipotizzato centro di quartiere. Tali sono le tre piazze che svolgono ruoli diversi: le due a quota 3.50 m, cioè alla quota delle coperture dei garage, sono soprattutto piazze di incontro o di gioco, diverse tra loro anche se simili, per la presenza in una del teatro all’aperto, usato solo durante l’occupazione degli sfrattati, per uno spettacolo di Dario Fo; la terza è, invece, una piccola piazza di convergenza e distribuzione dei vari percorsi pedonali, sulla quale si affacciano le attività commerciali e culturali necessarie al complesso”8

Per quanto riguarda gli edifici A1 e A2, il committente chiese ai progettisti di aumentare la «percentuale dei volumi totalmente redditizi», portandola dal 75 al 95 per cento: così, i volumi assunsero nel progetto definitivo un aspetto compatto, nonostante il permanere di alcune vuoti in corrispondenza dei passaggi in quota. Il progetto esecutivo adoperava la standardizzazione dei componenti, ottenendo da un lato tempi brevi di esecuzione e dall’altro, il contenimento dei costi. “La soluzione costruttiva, impostata su una struttura tradizionale (cemento armato e tamponature) ha contribuito a mantenere “indipendenti” le fasi della progettazione architettonica e del calcolo. La struttura non interviene a modificare o a condizionare le soluzioni formali - che prevedevano un impianto a setti in precompresso o prefabbricati - ma fa da supporto “tecnico” alla progettazione architettonica”.

Tra il 28 agosto 1970 e il 26 agosto 1972 la costruzione passò dallo scavo per le fondazioni, alla ultimazione degli edifici,a meno delle ultime finiture, della recinzione perimetrale, e delle portinerie, che furono richieste ai progettisti a lavori ultimati. Rispetto alla soluzione definitiva, nell'edificio di Aldo Rossi vennero introdotte alcune variazioni: le finestre a nastro della facciata ovest vennero sostituite da finestre quadrate, analoghe a quelle della facciata est. I setti del portico in seguito al calcolo strutturale si rivelarono sovrabbondanti, e per non mutare la fittezza del ritmo compositivo, uno su due venne realizzato in blocchi forati, non avendo alcuna funzione portante.

A partire dal Giugno del 1970 la società realizzatrice sollecitò il Comune circa i criteri di assegnazione degli alloggi e i canoni di locazione. Nel luglio del 1972, al termine dei lavori, si rese necessaria una convenzione con il comune, ma, a causa della valutazione immobiliare del complesso troppo alta, il Comune si trovò impossibilitato ad acquistare l'immobile. Per uscire da tale situazione, la Monte Amiata propose una concessione trentennale, con patto di futura vendita. Una bozza di convenzione fu stipulata nel marzo del 1974: si ipotizzava di vendere gli alloggi a una lista di inquilini fornita dal Comune. Dopo due anni dal termine dei lavori, nei quali gli appartamenti rimasero completamente sfitti, il 27 marzo del 1974 avvenne l'occupazione abusiva dei 444 alloggi vuoti. La vita normale cominciò solo dopo lo sgombero forzato degli alloggi, a seguito di un episodio di guerriglia urbana del 1975, che lasciò il complesso in uno stato di forte degrado. La società costruttrice restaurò l'edificio, rifacendo gran parte degli intonaci esterni, ritinteggiando gli interni, rivedendo gli impianti e sostituendo le apparecchiature igieniche di numerosi alloggi; in seguito lo Iacp di Milano sollecitò l'acquisto degli appartamenti, ma con poco successo. Oggi questo complesso residenziale risulta come un caso anomalo, gli edifici sono stati considerati troppo belli per essere venduti ai prezzi dell'edilizia popolare, cosa che però non ha evitato il formarsi di evidenti problematiche tipiche di un quartiere dormitorio. I problemi più evidenti riguardano gli spazi comuni, il teatro, le due piazze triangolari, la piazza-corte, i portici: si ha la sensazione che non vi sia vita umana. Tutto il sistema di attrezzature commerciali non è in attività, e ciò è da ricercare nella presenza di una recinzione continua, che isola il quartiere e ne impedisce la fruizione dall'esterno ai non residenti.

NOTE

1. il Piano Regolatore Generale è pubblicato in: Urbanistica n. 39

2. si veda la descrizione di Piero Bottoni in : “il problema della espansione della città: la questione del quartiere Gallaratese”, in Controspazio

3. C. Conforti, Il Gallaratese di Aymonino e Rossi, Officina edizioni, Roma 1981

4. V. Savi, L'architettura di Aldo Rossi, Franco Angeli, Milano, 1976

5. formato da Carlo Aymonino, Maurizio Aymonino, Alessandro De Rossi e Sachim Messarè

6. La convenzione venne resa esecutiva dalla Giunta provinciale amministrativa il 26 aprile 1965

7. Carlo Aymonino, Progetto per il complesso Gallaratese

8. Carlo Aymonino, piazze d’italia, Electa

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